Inammissibile la questione sollevata dalla Cassazione sulla legge 140/03 precisando però che se l'onorevole non partecipa alla conversazione chi parla per suo conto non può essere tutelato dalla norma (e dunque il problema non esiste nel caso di specie)
Inammissibile la questione di legittimità delle norme sulle intercettazioni telefoniche indirette dei parlamentari previste dalla legge 140/03. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza 163/05 (depositata ieri, 21 aprile, redatta da Giovanni Maria Flick e qui leggibile nei documenti correlati).
A sollevare la questione era stata la stessa Cassazione mentre esaminava la richiesta di scarcerazione di Stefano Donno, uno dei militari della Guardia di Finanza addetti alla scorta del senatore a vita, Emilio Colombo, finito nell'inchiesta sul giro di droga fornita ai vip della capitale. In particolare, i giudici del Palazzaccio dubitavano delle norme sull'utilizzabilità delle intercettazioni indirette dei parlamentari per violazione del diritto di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (articolo 3 della Carta fondamentale), del diritto di difesa (articolo 24) e del principio di obbligatorietà dell'azione penale (articolo 112). In effetti, la legge prevede che nel caso in cui il giudice intenda utilizzare le intercettazioni di conversazioni alla quali abbiano preso parte casualmente membri del Parlamento, debba richiedere l'autorizzazione a procedere dalla Camera di appartenenza del parlamentare. E se viene rifiutata, le intercettazioni vanno distrutte entro e non oltre dieci giorni.
La Consulta nel dichiarare inammissibile la questione e senza soffermarsi sul fatto di cronaca in sé, ossia le telefonate provenienti da due utenze del senatore tra il finanziere e Giuseppe Martello, accusato di fornire droga ai vip, ha fornito importanti chiarimenti. Per i giudici delle leggi, infatti, il caso è di più ampia portata e riguarda la legittimità degli articoli 6 e 7 della legge 140/03, molto più conosciuta per la prima parte, quella che sospendeva i processi contro le cinque più alte cariche dello Stato e che l'anno scorso fu dichiarata incostituzionale.
Questa volta, però, a finire nel mirino della Corte costituzionale sono state due disposizioni di attuazione dell'articolo 68 della Costituzione, quello sull'immunità parlamentare. E non sono neanche mancate le bacchettate per la Suprema corte che è partita da una premessa sbagliata. Vale a dire, almeno secondo il ragionamento dei giudici di legittimità, che la disciplina delle intercettazioni indirette sarebbe applicabile non soltanto alle conversazioni o comunicazioni alle quali partecipi personalmente il parlamentare, ma anche a quelle "intrattenute da altro soggetto che si limiti a trasmettere la volontà e la manifestazione del pensiero del parlamentare, quale semplice nuncius di quest'ultimo". Per cui anche il finanziere Donno, sempre secondo la Cassazione era da ritenersi tutelato dalla legge, perché avrebbe agito per nome e per conto di Emilio Colombo contattando telefonicamente Martello, in cinque diverse occasioni. Un'interpretazione che la Consulta ha bocciato sostenendo che ""prende parte" ad una conversazione o comunicazione chi interloquisce in essa: non colui su mandato del quale uno degli interlocutori interviene, sia pure nella veste di mero portavoce". Inoltre, hanno concluso i giudici delle leggi una volta che Piazza Cavour "reputi costituzionalmente illegittima la norma impugnata, in ragione della asserita radicale estraneità delle intercettazioni indirette al perimetro di protezione tracciato dall'articolo 68, comma 3, Costituzione, essa avrebbe dovuto logicamente privilegiare, tra le diverse letture possibili, quella che riduce l'"area di incostituzionalità", in ossequio al generale canone dell'interpretazione secundum constitutionem; e non già quella che la amplifica".
Cristina Cappuccini
CORTE COSTITUZIONALE
Fonte:
www.dirittoegiustizia.it